Picci Colorai

Durante i miei viaggi di lavoro o di svago a Roma o Milano mi è capitato di accorgermi di una realtà che di solito si coniuga con quella della grande città o metropoli e risulta quasi sconosciuta alla vita del piccolo centro di provincia: mi riferisco alla presenza dei barboni o “clochard”, per usare un termine francese di uso comune. Ogni volta, accorgermi della loro presenza ha suscitato in me una miriade di pensieri.

Se spontaneamente l’occhio è attirato e disgustato, dalla facciata, dall’aspetto di questi uomini e donne abbruttiti dalla sporcizia e dalla miseria, non si può al contempo non interrogarsi sul contrasto tra esteriorità e spirito di un individuo, tra condizioni di esistenza ai margini della società e dignità di esseri umani. Mi pervade allora una certa inquietudine e mi domando: come può una persona pervenire a simili condizioni? Mi assilla la necessità di comprendere il significato della evidente contraddizione esistente. Cerco di chiarire e comprendere quella situazione assurda e inconcepibile: non mi appare infatti in alcun senso ragionevole che un individuo possa, in modo consapevole, collocarsi completamente al di fuori della civile convivenza.

Mi sento proteso ad entrare nel suo spirito, a esplorare il suo interno, a far luce sulla parte più profonda e più oscura della sua anima. Non trovando soluzioni soddisfacenti, provo allora a indovinare e a ricostruire nella mia mente possibili esperienze di vita che motiverebbero una simile “trasformazione”: ad esempio, il rifiuto del mondo come luogo di ingiustizie e guerre, di consumismo e corsa ai profitti, anche se, seguendo il pensiero di Kundera, mi domando se è possibile “vivere in un mondo con il quale non si è d’accordo”, se è possibile esistere in un contesto che si rifiuta e a cui si sa di non appartenere. E ancora: una simile condizione potrebbe nascere da un evento personale che sconvolge e annienta, come la scomparsa di una persona cara, la perdita del posto di lavoro, la fine di un amore.

In un osservatore sensibile tali situazioni si convertono in riflessioni assillanti e tormentose. Può essere egli paragonato o assimilato a qualche altra categoria più facilmente qualificabile e più comprensibile? Egli non è sicuramente un vagabondo. Questi infatti si muove in continuazione, passando da un posto ad un altro. II barbone frequenta invece gli stessi luoghi, che per lui diventano anche “…la casa, la patria e l’universo”, come lo era per il gobbo Quasimodo la cattedrale di Notre Dame. Egli non è neppure un mendicante perché non va in cerca di carità, non bussa alle porte delle case per ottenere un pezzo di pane, non domanda elemosina ai passanti, ma vive con ciò che riceve, senza chiedere o pretendere.

Ne deriva che, nonostante le motivazioni possano essere gravi e diverse, si diventa barbone per propria decisione: è questo il mistero inquietante che pervade tale essere così squallido e, al tempo stesso, così bisognoso di compassione e di pietà. Relativamente alla mia esperienza, posso affermare di aver conosciuto direttamente un individuo che potrebbe essere definito un barbone. Ero allora soltanto un ragazzo, ma di lui ho ancora un ricordo nitido e fervido, legato soprattutto al fatto che, intorno a quest’uomo, io e miei compagni di infanzia avevamo escogitato, e non lo dico certo con orgoglio, un motivo di divertimento e di burla.

Di costui non era nota la reale identità. Con certezza si sapeva che era d’origine di Montecosaro e che agli inizi del secolo scorso, come molti altri connazionali, era emigrato in Argentina in cerca di migliori opportunità e guadagni. Successivamente, intorno agli anni Trenta, aveva lasciato lo stato latino-americano per fare ritorno in Italia accompagnato dalla moglie e dal figlio. Da tale momento la storia di quest’uomo si lega a quella di Montecosaro, mio paese natale. A quel tempo le condizioni di vita dei montecosaresi erano precarie e difficili, la quasi totalità della popolazione versava in miseria e di sicuro costui doveva aver suscitato meraviglia e invidia in molti paesani. Indossava infatti abiti eleganti e possedeva un prezioso orologio, munito di pesante catena d’oro, che custodiva nel taschino del panciotto; la moglie era molto ben vestita e la sua naturale carnagione bruna accentuava le labbra tinte di rosso che sembravano scintillare; il figlio si divertiva per le vie del paese montando una bicicletta da corsa, lusso che a quei tempi potevano permettersi solo i corridori professionisti.

Come è facile prevedere, però, tale situazione non durò a lungo e solo qualche anno più tardi la sua vita seguì un destino ben diverso. II rifiuto ad esplicare una qualsiasi occupazione e le spese dissennate, infatti, prosciugarono rapidamente tutti i risparmi; inoltre la moglie, delusa per la mancata concretizzazione delle promesse di agiatezza e benessere che il marito le aveva fatto, decise di ripartire per la sua terra di provenienza e lo abbandonò. Ricordo che la gente in paese raccontava che il marito in Argentina le avesse garantito una casa sontuosa e, una volta giunti a Montecosaro, le avesse mostrato come possibili abitazioni i tre palazzi più belli e sfarzosi del paese: il palazzo dei Conti Laureati, quello della famiglia Cilleni e, in ultimo, il palazzo Cagnaroni, l’edificio migliore ed il più grande, con le sue finestre dipinte di verde, poste talmente in alto da consentire una vista favolosa della costa. Ben diversa invece l’abitazione che nella realtà era stata costretta ad accettare: locali vecchi e di infima categoria.

Rimasto solo (il figlio nel frattempo si era reso indipendente) e senza soldi, quest’uomo si rintanò in un sudicio tugurio, che in precedenza aveva albergato esclusivamente pecore e maiali, e da quel momento iniziò a condurre una vita ai limiti della sopravvivenza. Me lo ricordo vecchio, bisognoso e sporco; indossava tanto in estate quanto in inverno un cappotto logoro e lercio che copriva alla meglio gli stracci sottostanti; aveva una barba di colore rossiccio ispida e incolta. Noi ragazzi lo chiamavamo Picci Colorai, dal nome di un piccolo uccello diffuso in Argentina, e come in un gioco che suscita ilarità e divertimento avevamo preso l’abitudine di rivolgerci a lui in questo modo: gli chiedevamo “Picci, dò vai” oppure “Picci, quanto è arde se torri?”. E’ opportuno precisare che “le torri” erano riferite all’unità di misura con la quale egli calcolava la profondità del mare dell’Assunta (non meglio precisato), che a suo dire raggiungeva “sette torri d’acqua”. Sarebbe del tutto sconveniente riportare qui per intero la risposta che puntualmente ci veniva urlata fragorosamente, ma risulterà facilmente intuibile dicendo che era immancabile la parola “mammeta”, con tutto quanto la precede.

Ricordo che un giorno il mio amico Titta, vedendolo in pessime condizioni, lo fece entrare nella propria casa e gli offrì un bel piatto di minestrone. Egli mangiò con appetito e avidità, ringraziando poi con fervore e riconoscenza. Quando stava per congedarsi, Titta ingenuamente e senza alcuna ombra di malizia, si rivolse a lui dicendogli: “adesso dove vai?”. La risposta urlata a gran voce fu anche allora “…mammeta”. Questo gioco di botta e risposta andò avanti per diverso tempo, fino a quando le condizioni di salute di Picci Colorai si aggravarono e fu necessario portarlo all’ospizio. Morì però poco dopo il suo ricovero, allorché era amorevolmente assistito dalle suore, quando per lui si prospettava una nuova vita, una vita… civile.

Sono trascorsi molti anni da allora. Pensando ai fatti narrati un senso di colpa mi assale. Era davvero un gioco quello che facevamo? Provo ad immaginare il vero significato del comportamento di Picci Colorai. II suo agire non poteva forse essere il segno della sua volontà di evitare il distacco completo dal mondo, una forma di reazione alla triste realtà e, in una certa maniera, una implicita richiesta di soccorso? Purtroppo noi ragazzi non avvertimmo nulla, non percepimmo alcun grido di aiuto. Ciò avvenne per l’incoscienza della nostra giovane età o perché Picci Colorai non era “abbastanza” barbone ma solamente un suo antesignano incompleto?

Dott. Prof. Gian Mario Perugini

5 commenti

  1. Piccì Coloraì di cognome faceva GIUSEPPONI ed era fratello di “Lucciola”. Abitava in via XX Settembre (ex abitazione di Bice e Sauro Marchetti).

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  2. Caro direttore,
    desidero ringraziare il prof. Gian Mario Perugini per aver consentito, ai non più giovani montecorsaresi, di ritornare a quel vissuto di “Picci Colorai” che, sia pure confusamente, è ritornato alla mia mente.
    Credo di aver compreso il vero senso di questa storia di un uomo che, per varie e numerose vicissitudine della sua vita, si è abbandonato, ovvero lasciato andare.
    Vivere, dunque, non è più semplice a causa delle varie e numerose difficoltà che stiamo incontrando quotidianamente e che potrebbero (forse) determinare tanti altri “Picci Colorai”, ovvero il senso della disperazione di un uomo.
    Auspico che la bellissima nota del prof. Perugini sia letta con attenzione e riflessione anche da parte dalle nostre Istituzioni.
    Cordialmente, Giuseppe Perugini

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  3. E’ stata comunque la sua decisione e credo sia inutile porsi delle domande su come un uomo possa lasciarsi andare a così estreme condizioni,resta il fatto che la sua è stata una scelta e debbo dire anche coraggiosa.
    Forse il peso di qualche disperazione lo aveva portato a capire e a gioire della vera libertà,quella che la maggior parte di noi si sogna.
    E’ stato un benestante ma anche un miserabile,ricoprendo due lati pur sempre non soddisfacenti della vita.
    La vita appunto che cosa è?
    questa è la domanda fondamentale che dovrebbe farci riflettere,dal mio punto di vista è un’illusione dato che niente è per sempre, tutti siamo diretti in un unico posto e forse saremo ricordati solo se avremo coraggio di non farci trascinare dal solito binario.
    Un saluto Picci Colorai grande uomo e grande attore!

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