Lo Momò

Fernando lo Momò, negli anni della giovinezza, era conosciuto come Fernando de Lillo, appellativo derivante da quello paterno, Pio de Lillo. A quei tempi, erano gli anni bui dell’immediato dopoguerra, tristemente segnati dalla fame e dalla miseria, Fernando imparava il mestiere di ferrà (fabbro) presso la bottega di Angelo Angeletti detto Angiolì de Pizzà. Per il suo lavoro non riceveva alcun compenso se non qualcosa da mangiare nell’intervallo di mezzogiorno. Anche se ci tiene sempre a ricordare, per la sua innata riconoscenza, che Angiolì gli comprò un motorino “98 Ducati” del quale non ricorda più che fine abbia fatto e oggi farebbe chissà che cosa per riaverlo! Quando Angiolì de Pizzà, coinvolto in un grave incidente stradale, fu costretto a cessare l’attività di fabbro, allora Fernando decise di mettersi in proprio, pur consapevole che la vita futura sarebbe stata difficile e faticosa. Lavorava duramente tutto il giorno: si divideva tra la forgia, dove faceva arroventare il ferro e l’incudine, dove il ferro veniva da lui battuto e modellato. I suoi clienti erano i contadini del paese dai quali, a fine anno, in forma di pagamento, riceveva il cottimo, consistente in provviste alimentari e altri beni in natura.

Con grande forza e dignità, instancabile e mai rassegnato, portò avanti l’attività per molti anni, anche quando l’uso sempre più massiccio delle macchine, lo spopolamento delle campagne e la drastica flessione nell’utilizzo di attrezzi agricoli tradizionali resero irrimediabilmente superato il suo mestiere e le sue competenze. Penso di non sbagliare affermando che probabilmente sarà stato uno degli ultimi in Italia a fabbricare artigianalmente le gumère, ovvero lame per macchine agricole. Malgrado gli sforzi, alla fine dovette arrendersi alla decisione di vendere il laboratorio che si era costruito con tanti sacrifici. Tuttavia, l’aspetto che ha maggiormente distinto Fernando è senz’altro quello dell’impegno politico. La sua militanza nel P.C.I. fu convinta e assidua. Perfetto osservante del pensiero e delle direttive del partito, aveva fatto de “L’Unità” il suo punto di riferimento, conformandosi pienamente al detto assai noto a quei tempi “L’Unità lo dice” oppure “L’Unità non lo dice”. E’ significativo, in questo senso, il fatto che egli si dichiarò pronto a fare la rivoluzione in occasione dell’attentato a Togliatti e a combattere a fianco degli operai contro la polizia di Scelba.

Da notare, inoltre, che proprio per le sue ferme convinzioni politiche non si era mai abbassato a chiedere favori e aiuti, quei favori e aiuti che gli avrebbero reso più facile e redditizio il lavoro di fabbro. E’ chiaro, infatti, che l’appoggio allo schieramento dominante gli avrebbe consentito di ricevere protezione e contributi in denaro; ma mai, anche nelle circostanze più avverse, la sua fede nel comunismo vacillò e mai egli si arrese al compromesso. In paese si era distinto per l’accesa lotta nei confronti della parrocchia locale. Erano i tempi in cui si faceva politica dall’altare, la scomunica ai comunisti veniva predicata in tutte le chiese e il comunismo era considerato nemico acerrimo della religione. Fernando si infervorava e, a suo modo, dichiarava guerra all’avversario: “va dicenne pure che li comunisti se magna li frichi…”. Molti ricorderanno certamente gli scontri “all’ultimo sangue” con Don Nazzarè, allora parroco del paese: mentre questi inveiva con le prediche, Fernando aggrediva con “La Raspa”, il giornale murale della sezione locale del partito.

Nel corso delle competizioni elettorali era solito parlare in modo pungente e diretto, rivolgendosi ai suoi avversari con un ricco e colorito repertorio, del tipo “truffatori, imbroglioni, filibustieri, parassiti, farabutti, corrotti, ladroni” (che fosse provvisto di doti profetiche?). Se l’appellativo di Momò gli fu attribuito in un’occasione piuttosto banale – la parola “momò” venne pronunciata da Fernando per incutere paura ad alcuni bambini – mai un soprannome fu tanto appropriato, tenuto conto della sua grandissima combattività. Con l’abbattimento del muro di Berlino, il rimescolamento partitico e la delineazione di un panorama politico in cui andava a scomparire la netta contrapposizione tra i due unici grandi partiti, Fernando non riuscì più ad acquisire una chiara percezione del nuovo assetto e si sentì disorientato. Nel corso di una delle ultime consultazioni elettorali mi raccontò che un compaesano, dopo avergli messo un braccio sulla spalla, gli disse: “Non te preoccupà, sta orda vegnemo!”. Quella circostanza lo lasciò piuttosto dubbioso e sconcertato: non riusciva, infatti, a capire come mai proprio quella persona, con la quale aveva sempre fatto cagnara, lo avesse coinvolto nel comune auspicio di vincere le elezioni. Mi fece poi il nome di quell’uomo e quindi compresi: dopo essere stato un attivo galoppino democristiano era, al momento, un seguace della Margherita.

Che dire ancora di Fernando? Che era un uomo, in un certo senso, eccezionale: per la sua onestà che, tanto nel lavoro quanto nella politica, non è venuta mai meno, per la tenacia e la passione con cui ha creduto nei suoi ideali. Di questi tempi, bisogna ammettere, tali prerogative sono sicuramente una rarità! Fernando morì il 23 maggio 2006.

Gian Mario Perugini

6 commenti

  1. Caro direttore,
    Le rappresentazioni redatte dal prof. Gian Mario Perugini su alcuni “personaggi” montecosaresi, oltre che simpatiche e divertenti impongono a noi lettori, tuttavia, profonde attente riflessioni. Le leggo con vero piacere e interesse. Grazie mille professore.
    Cordialmente, Giuseppe Perugini

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