Esiste uno strumento che tra tutti gli elettrodomestici moderni ha maggiormente cambiato il modo di vita di tutti i giorni della donna: la lavatrice; da molti considerata un fattore rilevante nella storia dell’emancipazione femminile. Per la donna, infatti, è da considerare la più grande invenzione del ‘900, perché l’ha affrancata definitivamente da uno dei lavori più pesanti che si possano immaginare, cancellando dal dizionario una parola che prima tutti conoscevano: “lavandaia”, una figura che è stata per moltissimo tempo parte importante del quotidiano comune della gente, inghiottita dal mutar dei tempi.
In verità, c’è stata da sempre in ogni famiglia una lavandaia, perché fra i tanti lavori che la donna ha umilmente svolto nel corso dei secoli, uno dei principali era quello di lavare i panni sporchi (al fiume o al lavatoio) del marito e dei figli. Fare il bucato a mano era un rituale tradizionale affascinante, un vero e proprio cerimoniale familiare, ma l’operazione, considerate le dimensioni di una famiglia media dell’epoca, non era affatto un gioco da ragazzi.
Alcune donne, per necessità, trasformarono quest’attività in un vero e proprio mestiere, svolto presso le famiglie benestanti e presso famiglie in cui la donna di casa era ammalata e non poteva lavare i panni. Il duro mestiere di lavandaia era quasi esclusivamente appannaggio femminile e lo praticavano, soprattutto, le donne sole: madri nubili, zitelle, vedove di guerra o del lavoro.
Un duro lavoro, quello della lavandaia: le mani in costante contatto con l’acqua non erano nemmeno il disagio peggiore, la vera sofferenza, per chi lavava con l’acqua del fiume, era dover stare costantemente piegata, protesa in avanti per insaponare, sciacquare e strizzare i panni. E lo faceva, a schiena curva, con qualsiasi tempo e temperatura, sotto il sole e al freddo, rimanendo per ore e ore in ginocchio, postura che la portò a soffrire di quel classico processo infiammatorio, noto come il “ginocchio della lavandaia”. Quando furono realizzati i lavatoi pubblici (costruzioni coperte dotate di vasche capienti) le donne furono molto facilitate nel lavoro, perché potevano lavare i panni in piedi, mantenendo una posizione più o meno eretta.
Il procedimento per lavare i panni seguiva un rituale ben preciso ed era a grandi linee abbastanza simile in tutta la penisola, da Nord a Sud. I panni venivano posti con cura in una tinozza di legno, recipiente a forma conica e con larga bocca, panno sopra panno, coperta da un “ceneraio”, rappresentato, generalmente, da un sacco di iuta o, più semplicemente da un lenzuolo, dove veniva depositato uno spesso strato di cenere. Al posto della tinozza si usava anche una capiente canestra.
Per dare profumo al bucato si utilizzavano spesso alcune foglie di lavanda, di alloro o di rosmarino, così come, per rendere più efficace l’azione sgrassante della “lissia”, venivano aggiunti gusci d’uova tritati. Si versava sulla cenere l’acqua, bollente, riempiendo fino all’orlo la tinozza. Questo misto di acqua e cenere, che filtrava attraverso i tessuti e che conteneva potassio e fosforo, gli additivi che oggi si usano nei detersivi moderni, era la liscivia, il “ranno”, che si faceva fuoriuscire dal buco posto alla base della tinozza, da cui il termine “bucato”.
La liscivia recuperata, veniva di nuovo bollita e versata nella tinozza con un ciclo di riempimenti e svuotamenti che richiedeva quasi un’intera mattinata di lavoro. Il bucato, quindi, veniva lasciato in ammollo tutta la notte nel recipiente. L’indomani i panni venivano estratti e riposti all’interno di cesti per essere portati al fiume o al lavatoio più vicino (sulle forti spalle o sulla testa), dove seguiva il rituale del lavaggio e del risciacquo. Si sgrassava con il sapone fatto in casa e si risciacquava, strofinando e sbattendo ripetutamente i panni sulla pietra, usando tanto “olio di gomito”.
Il rito del bucato nei lavatoi pubblici, come anche al fiume, diventò per le donne, anche se faticoso, un momento d’incontro e un luogo di aggregazione femminile, anche perché era uno dei pochi spazi dove potevano andare senza la presenza “opprimente” dell’uomo. Il canto e la “chiacchiera” divennero l’unico conforto alle lunghe ore trascorse sul greto di un fiume o davanti al lavatoio sotto la calura o il freddo gelido.
Si scambiavano consigli e pettegolezzi, si partecipava alle gioie e alle disgrazie delle une e delle altre, si cantavano canzoni nostalgiche e patriottiche, strambotti ironici e amorosi, si rideva e, spesso, si rifletteva sulla “disgraziata” condizione delle donne. In questi luoghi di aggregazione sono nate e si sono diffuse, ed anche affermate, le prime rivendicazioni dei diritti femminili. Questa è una delle ragioni per le quali gli antichi lavatoi sono tutelati ed apprezzati come siti storici secondo le direttive emanate dall’Unione Europea.