In tempo di guerra, quando i tedeschi ci passavano sopra con gli aeroplani noi ci nascondevamo giù alla Cupa, una strada di dieci metri più bassa del campo. C’era mia mamma e altre donne (fra cui una che ci portava il latte la mattina) con i bambini.
Mio padre si spostava continuamente, io gli stavo sempre attaccato come una scimmietta e mi accovacciavo con lui quando sopra ci passavano le granate: “bom… bam…!”.
Una volta, una granata è finita nel fosso, subito ne è caduta un’altra poco più su che ha colpito una persona che stava nascosta nel campo di granturchi de Quintavà (di Quintavalle). Noi stavamo nei pressi della nostra casa e lo abbiamo sentito urlare. Con mia madre siamo andati a vedere: una granata jiaìa stuccato nà zampa che jié pinnìa de ‘na parte (una granata gli aveva quasi amputato una gamba, che gli pendeva da una parte).
Lo abbiamo avvolto ad un lenzuolo e, con la gamba pendente, lo abbiamo caricato sopra un carrettino con le ruote di legno. Quanto sangue, vinìa jiò a pisciarelle (scendeva a profusione)!
Appena arrivato un mezzo di trasporto adeguato, lo abbiamo fatto portare all’ospedale di Civitanova. Dal fatto, fino al momento in cui è arrivato all’ospedale saranno passate due ore, forse qualcosa in più… Se è morto? Non lo abbiamo mai saputo.
A quel tempo avevo sette-otto anni e quante ne ho viste di cose brutte! Cose che non si scordano finché campi. Cosa ne sanno i ragazzi di oggi del sacrificio, della paura, della fame, del lavoro… Con i sacrifici ci siamo diventati grandi, eppure ci accontentavamo di tutto: se andava bene, andava bene, altrimenti andava bene lo stesso…
I giovani d’oggi hanno ogni cosa e si lamentano pure. Ma in fondo, è colpa loro? Non siamo stati noi a farli crescere in questo modo? Jiè dacemo tutto a paro de la vocca e pò piagnemo (diamo loro tutto ciò che ci chiedono e poi piangiamo)!
Sà che te dico, fijia? Che lo pegghjo angora à da vinì (sai cosa ti dico, figlia? Che il peggio deve ancora venire)…
Vedi tutti i RACCONTI MONTECOSARESI DI GUERRA E DOPOGUERRA
Racconti, tradotti dal dialetto all’italiano, tratti dal libro “Viva la Jiende” di Emilia Corelli Cucchi (2000) – Centro del Collezionismo