Ai vecchi tempi, portavamo tutti gli zoccoli. Le scarpe erano riservate per la domenica, per andare alla messa. Avendone un solo paio si andava a messa a turno: prima mio fratello, poi quando tornava a casa, se le toglieva, le passava a me, e andavo io.
Potevo avere neanche vent’anni: una volta che i pantaloni di mio fratello si erano consumati e i miei che addirittura erano diventati quasi trasparenti, sono andato a lavorare con i muratori per rimediare due soldi. Ci ho lavorato poco più di un paio di settimane, il tempo necessario per comprarmi i pantaloni nuovi, più una cravatta. Una cravatta come i signori!
Prima mi piaceva una ragazza e la domenica mi volevo dichiarare. Per parlarle volevo essere ben presentabile. Allora vado alla messa a Montecosaro con i nuovi abiti. Io la guardavo, lei mi guardava, sapeva che mi piaceva! Quando la messa è terminata siamo usciti fuori, lei si è fermata a parlare con le sue compagne nei pressi della porta della chiesa; io che volevo dichiararmi la stavo aspettando in mezzo alla piazza. Ma era presente anche il mio Padrone (datore di lavoro). Questi mi ha visto e di punto in bianco mi ha dato du’ svendulò su lo muso (due schiaffi in faccia), urlandomi anche: “Leete subbeto la graatta, quesse le porta li padrù, li condadì come te, porta le pertecare (togliti subito quella cravatta, solo i padroni le portano, i contadini come te, portano gli aratri)!”. Sono scappato via roscio come un peperò (rosso come un peperone). La vardascia (ragazza)?…Sparita!
Per due mesi sono andato a messa a San Savino, poi ho rivisto la ragazza alla festa dell’Annunziata ed eccoci qua, marito e moglie, con cinque figli.
Racconto, tradotto dal dialetto all’italiano, tratto dal libro “Viva la Jiende” di Emilia Corelli Cucchi (2000) – Centro del Collezionismo